In ogni discorso intorno al male il rischio è la retorica, la banalizzazione o peggio ancora il fraintendimento. Il “male”, infatti, può avere a che fare con l’etica o riferirsi a un mero calcolo di tornaconto; interessare il singolo o la coscienza collettiva. Venire associato a peccato, infelicità o sofferenza. Essere insomma il risultato d’un comportamento riprovevole in senso morale o l’espressione d’una patologia; come pure rappresentare la cifra d’una negatività radicale intorno a cui i filosofi hanno così a lungo dibattuto.
Varie sono dunque le Figure del male – per dirla col titolo di un saggio di Franco Rella, edito da Meltemi –, ovvero di questa “strana creatura del caos”, come ebbe a chiamarlo con felice metafora Goethe. Creatura proteiforme e paradossale, se si riflette sul fatto che per secoli i Padri della chiesa hanno considerato, al negativo, il malum un defectum boni: una mancanza di bene. Male in quanto assenza, allora, o al contrario quale presenza che permea e attraversa ogni ambito, come scrive Giacomo Leopardi nello Zibaldone, sostenendo che “tutto è male”? E la morte – il dato realissimo del nostro fatale venir meno – non è anch’essa espressione massima della negatività, dell’abisso vuoto in cui gli esseri viventi sono annichiliti?
Eppure forse è opportuno resistere al paradosso ed abitarlo. Forse, come suggerisce di fare Rella, l’incomprensibile deve venire accettato proprio perché incomprensibile. Oscuro e indecifrabile, il male rappresenta dunque l’enigma per antonomasia del nostro esistere, del nostro patire. Ma nell’esplodere della malvagità, nello scandalo d’un innocente martirizzato, nel dolore più estremo; quando insomma l’attrito fra io e mondo si fa lacerante, ecco prodursi un varco, un vuoto che potremmo chiamare “il tremendo del sacro, in cui la nuda vita, la vita scorticata di tutto si trova di faccia a ciò che la ferisce”.
Rimane, aperta e irrisolta, la domanda che tutte le filosofie da sempre si sono poste: cosa è in grado di opporre il pensiero di fronte al male, alla sofferenza? Specie dopo Auschwitz, il luogo in cui è tramontata per sempre ogni teodicea: ogni illusione sulla giustizia divina. Sarà che a partire dall’Olocausto tutti, ebrei e non, abbiamo dovuto misurarci con la assenza di dio, se non con la sua impotenza. Anche la teologia così si trova costretta a ribadisce il carattere misterioso del male che peraltro, sottolineava Ricoeur, una volta compreso non sarebbe più tale.
Male: figura cangiante dai mille volti, che è stata utilizzata persino per rappresentare la finitudine stessa, l’entropia, la morte termica, il ni-ente, il venir meno dell’essere. O ancora – scendendo di tono e misurandoci con un presente all’insegna del ripiegamento su un privato sempre più apatico – oggi nell’ambito dell’espressione artistica o del pensiero il male può annidarsi nel gesto minimalista, nel narcisismo, nel disimpegno, nell’apoliticità, nell’indifferenza al destino altrui. Così, concordo pienamente con Rella, l’oblio del male, “l’afasia di fronte alle sue forme” costituisce una grave “deresponsabilizzazione di fronte a ciò che è per noi essenziale, decisivo”. Come condivido, seguendo Lévinas, il fatto che probabilmente l’unico modo per opporci al male è il riconoscere e il prendersi cura dell’altro attraverso un’agápē, un amore caritatevole che è a fondamento dell’etica.
Ancora: la consapevolezza da parte dell’uomo di essere (l’ha detto bene Rilke) tra le cose caduche “il più caduco”, la coscienza della nostra comune fragilità e vulnerabilità, la prospettiva stessa dell’ineludibile declino insito in ogni vecchiaia sono altri aspetti, altre proiezioni di quell’Ombra, di quella figura archetipica con cui Jung descrisse allegoricamente il lato oscuro e terrifico dell’esistere. Ma una cosa va subito detta: non illudiamoci minimente che il male sia sempre e solo fuori di noi, oltre e altro da noi. Sarebbe il più pericoloso degli abbagli. Come l’illusione di sconfiggere un giorno il male (la malattia, la violenza, la morte); peggio ancora: di esorcizzarlo o rimuoverlo, negandolo o proiettandolo sul mondo/prossimo.
Resta il problema della difficoltà a figurarci, al di là delle immagini tradizionali (diaboliche o infernali che siano), l’irrappresentabile del male. Così forse, di là dalla ragione discorsiva, è la parola poetica o narrativa l’unica in grado di dire l’indicibile della negatività. Poiché, sostiene infine Rella, “la letteratura è un’uscita dal principio di non contraddizione che domina il pensiero logico”; anzi essa comporta una sottolineatura e un prendersi carico della contraddizione stessa, facendo sì che attraverso e tramite questo cruciale straniamento noi si possa cogliere “l’impensato della vita quando essa si incontra con la morte”.
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